giovedì 9 dicembre 2010

flash(ion) illustration story



“La moda è un camaleonte, espressione di pensieri ed emozioni, oltre che di forme e silhouette. Non è un frivolo o manieristico esercizio di stile, ma un aspetto eccitante della nostra vita che l’illustratore ha il compito di rappresentare”.
Probabily, D.Egneus is my preferit fashion illuastrater

Tracciando una panoramica per linee essenziali deldisegno di moda, si nota come esso è stato e continua ad essere mutevole, mai costante nel corso del tempo, con periodi di totale assenza dai periodici del settore e dalla pubblicità.
Siamo nel lontano 1908, quando Paul Poiret commissiona a Iribe un album che riesca a illustrare espressivamente, e non tecnicamente, la sua nuova collezione: l’operazione riscuote tantissimo successo, così che l’haute couturiér francese decide di ripeterla affidandosi, nel 1911, alla mano di un altro disegnatore. L’album si intitola “Les Choses de Paul Poiret vues par George Lepape” ed è quello che segna il progresso, la svolta nell’illustrazione di moda: una collezione “vista” mediante un occhio diverso e distante da quello dello stilista.
Comincia la storia della rappresentazione grafica di moda elevata al rango di espressione artistica, in un rapporto di reciproca influenza con le arti maggiori. LaGazette du Bon Ton è la rivista in cui opera l’equipe di grandi come Barbier, Martin, Marty, Brissaud e i già citati Lepape e Iribe, che riusciranno ad influenzare persino la fotografia e a non farsi soppiantare da essa.
Ogni loro illustrazione, anche su altre riviste, affiancata dalle firme di talenti come Brunelleschi, Ertè, Benito o Drian, inquadra perfettamente la moda dell’epoca nei contesti più appropriati, diffondendola mediante le numerose testate giornalistiche esistenti in quel periodo.

Legata prevalentemente all’alta moda, la storia dell’illustrazione ne segue gli sviluppi e le crisi, alternando periodi di grande fioritura a fasi di stallo, lasciandosi sostituire dall’oggettività del mezzo fotografico.
Gli anni ’30 vedono per primi il declino: capofila è Vogue, e a seguire le testate minori, che bandisce le celebri copertine disegnate per sostituirle con quelle fotografiche.
In maniera molto più marcata, la verità dell’obiettivo fotografico non teme rivali negli anni ’50. Solo con le nascenti collaborazioni fra artisti e stilisti si vedono lievi accenni di un ritorno all’illustrazione: su tutti, il celebre connubio Dior – Gruau, emblema di come un’ artista “vede”, determina, caratterizza col proprio segno grafico il lavoro di uno stilista.
Dall’inizio degli anni ’60, si assiste ad un definitivo abbandono del disegno di moda. Collettivamente le riviste del settore intraprendono una politica editoriale che solo sporadicamente si avvale di artisti per la loro celebrità, per eventi speciali, e non di rado per iniziativa spontanea degli stessi, ma in qualità comunque di reporter.

La sola fotografia ha il compito di registrare, di riportare meccanicamente, documentare, con non pochi problemi visuali, entro confini tecnici che la totale libertà del disegno non conosce.
Per tutta la durata degli anni ’60 e ’70 riviste come Harper’s Bazaar e Vogue danno uguale enfasi a fotografie e disegni: alcuni dei loro regolari collaboratori come Rene Bouché ed Eric muoiono e nessuno, per lungo tempo, li sostituisce.
Un’unica firma compare sulle riviste: quella di Antonio Lopez. Da Women’s Wear Daily al New York Time, a Elle, i suoi lavori suscitano l’interesse di molti.
Lo stile versatile, frutto di diverse influenze, dalla Pop Art al Surrealismo, regala vitalità al mondo dell’illustrazione di moda, ma sopra ogni cosa, crea un ponte fra gli anni ’60 e la rinascita degli ’80, escludendo il manierismo fotografico del tempo.

Indumenti non fotografabili, che necessitano angolazioni diverse per risultare suggestivi, conducono gli editori a rivolgersi agli artisti: da un’istantanea si può evocare l’indumento, l’umore dello stilista piuttosto che quello della stagione culturale in cui esso nasce.
Le riviste tornano ad essere, come all’inizio del secolo, espositrici di illustrazione il cui linguaggio creativo si trasforma in vera e propria espressione artistica.
La mode en Peinture promuove le donne forti e dominanti, catturate per impressioni, di Tony Viramontes che collaborerà poi con Lei, The Face, MarieClaire e Le Monde.
Mats Gustavson, per Vogue e MarieClaire, descrive tagli e stili tramite l’uso coinciso di linea e colore; Joe Eula si serve di acquerelli veloci per fermare sulla carta un abito in passerella; Alterio ci porta dentro atmosfere fumose e intense; Michael Roberts traduce Picasso e Arte Africana per i servizi del Sunday TimesNovaVingt Ans.
Per quanto riguarda Vanity, già nel 1981, con l’incentivo di Anna Piaggi, compaiono le “vignette” satiriche di Hippolyte Romain, collaboratore anche de La Mode en Peinture, col suo peculiare segno caustico, sebbene egli adori il mondo della moda.
Con Alberto Nodolini questa forma d’arte è incrementata maggiormente, enfatizzata da talenti italiani “indigeni” e dalle caratteristiche particolari: ecco comparire le incisioni di François Berthoud, la tecnica altamente rifinita dei pastelli a olio di Lorenzo Mattotti (entrambi hanno radici che affondano nel fumetto), gli abiti-sculture rappresentati da Stefano Canulli, e molti altri.
Se pure con tecniche e punti di vista totalmente distanti, ognuno di loro contribuisce a modificare la riproduzione grafica del vestire, grazie alla forza dell’essenzialità, alla personale interpretazione, lontana dalla mera documentazione fotografica.
Gli anni Novanta si servono dell’arte del disegno, non solo per gli abiti di tendenza, ma anche per gli oggetti di design.
In generale è la pubblicità ad acquisire questo volto: artisti come Jason Brook, i cui disegni a inchiostro ci riportano a Beardsley; Jasper Goodall o Thierry Perez appaiono con le loro immagini pseudorealistiche su Vogue, Visionaire, The Sunday Times.
Alla fine del decennio comincia la velocissima scalata delle tecniche computerizzate, che consentono di “vedere”, di studiare ancora, di trasformare una sfilata in un album.
Gli illustratori di moda attuali si avvalgono di strumenti e metodi che rispondono ai cambiamenti di gusto nella moda, nella società e nell’arte, mostrando stili variabili, tuttavia riconoscibili, che mutano al variare dell’umore della moda, dello style.
François Berthoud, la cui carriera ha inizio negli anni Ottanta, continua ad illustrare la moda: utilizza vernici a smalto tanto quanto Photoshop, mantenendo uno stile diretto ed efficace come quello degli esordi, giustificato dall’incisione.
Photoshop, scanners, collage fotografici e le più disparate tecniche informatiche, hanno trasformato l’arte dell’illustrazione: cosmic cybergirls popolano le pagine di moda, ma sono numerose le contaminazioni dei mezzi grafici, tanto che non importa più se l’handmade è in realtà un effetto creato digitalmente, la licenza artistica è un aspetto essenziale.
L’illustrazione continua così ad affascinare per le sue qualità narrative, filtrate dall’artista libero di esprimere fantasia e talento, in alternativa allo “squallido shock della quasi-porno estetica fotografica del tempo”.
Sebbene quest’ultimo concetto sia legato alle più recenti sperimentazioni grafiche, serve a riportarci all’analisi intrapresa dell’opera di Mattotti, alle immagini di celata sensualità che, negli anni che vanno dall’’84 all’’89, ne costituiscono una valida testimonianza.
E’ interessante notare come, nonostante la sua dichiarata estraneità al mondo-moda, riporti una documentazione efficace del suo tempo.
Gaia Nicastro

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